Più passa il tempo, più il lavoro online diventa complesso.

Aumentano i concorrenti, ma soprattutto è richiesta una visione sempre più ampia e approfondita (qualcuno direbbe “olistica”) per riuscire ad ottenere un risultato di rilievo. Spesso occorrono anche più risorse, più tempo e più soldi.

Stringendo il campo al solo ambito della SEO, ricordo che nell’epoca pre-Panda (2011) e pre-Penguin (2012) si potevano fare cose che oggi sono impensabili: conosco almeno un paio di persone che, con siti/blog costituiti da articoli di 3 paragrafi e link comprati alla rinfusa sono riusciti a portare a casa in pochi anni cifre da capogiro, imbottendo i post di banner pubblicitari e affiliazioni.

Da qualche anno non è più possibile.

Ci sono almeno 5 errori, 5 cose tipiche della vecchia SEO che oggi non hanno praticamente più senso (ma che ancora ritornano quando discuti con certi prospect non proprio al passo con i tempi):

  1. Posizionare una parola chiave “corta”. Puntare alla singola keyword secca (il classico “hotel roma”) anziché su keyword di long tail più specifiche (“hotel a roma con parcheggio vicino al vaticano”) presenta 2 svantaggi. Il primo è che per scalare la keyword corta occorrono normalmente più risorse/tempo/soldi rispetto a quella lunga. Il secondo è che le chiavi più specifiche convertono molto di più, perché soddisfano le necessità e l’intento dell’utente. Per fortuna oggi si guarda sempre più al ROI (ritorno sull’investimento) e sempre meno alle ego keyword… e considera inoltre che gli utenti si sono abituati ad utilizzare molti più termini quando cercano qualcosa su Google (anche grazie all’aumento esponenziale delle ricerche vocali).
  2. Creare contenuti solo per i motori. Ricordi i siti pieni di articoli che puzzavano di SEO a chilometri di distanza? Pochissime righe, chiave secca ripetuta nel titolo, negli H1 e H2, più e più volte in grassetto all’interno del testo. Ma non era questo il vero problema. La cosa assurda è che il contenuto sembrava scritto da un robot… eppure si posizionava! Oggi vale invece la regola di creare contenuti pensati per gli utenti: se hai dei dubbi sull’articolo che hai appena prodotto, leggilo ad alta voce a qualcuno prima di pubblicarlo. Se “suona bene”, se non sembra generato da un software, allora mettilo online.
  3. Dominio EMD e nessuna volontà di creare un brand. Se sei un brand noto, se sei associato nella testa dell’utente come quello in grado di risolvere un determinato problema/soddisfare un determinato bisogno, puoi anche evitare di investire nella SEO. Anni fa si puntava invece a comprare domini a “corrispondenza esatta”, i cosiddetti EMD (ovvero con dentro la parola chiave secca), e su quelli montare un sito e posizionarlo su Google. Non si pensava in alcun modo a creare un marchio riconoscibile, che fosse ricordato dall’utente. È come se io volessi fare il consulente seo e comprassi il dominio consulente-seo.com, senza tentare di creare un brand basato sul mio nome e cognome o sul mio nickname. Potrebbe funzionare? Potrei attrarre clienti interessanti con una strategia del genere? Ne dubito fortemente…
  4. Scarsa cura di UI e UX. Titolo asettico, una immagine (quando va bene) e un “muro di testo” con la parola chiave ripetuta un po’ di volte: assurdo pensare che articoli e post di qualche anno fa fossero simili a questa descrizione. Oggi, considerando anche il fatto che la stragrande maggioranza del traffico viene generato da smartphone e che la banda larga è disponibile in modo capillare, bisogna necessariamente mostrare dei contenuti pensati per essere fruiti su schermi di ogni dimensione, con all’interno (quando necessario) molti più elementi visuali e multimediali di un tempo.
  5. Fare link building sulla pura quantità. Ricordo perfettamente quando la compra-vendita di link avveniva sulla base del numerino mostrato sulla barretta del PageRank: più il numerino era alto, più (ovviamente) il link costava. Il concetto di link earning o di digital PR, oggi basilare, era praticamente inesistente: i link si acquistavano basandosi sul numero (più erano, meglio era), e non sulla qualità/provenienza. Io penso da sempre che un link buono è un link che porta traffico di utenti reali, e soprattutto traffico in grado di generare vendite…

Evito di chiudere con un “si stava meglio quando di stava peggio”, per non sembrare troppo vecchio e nostalgico.

Però è innegabile che il lavoro del SEO di un decennio fa fosse più semplice, e fondamentalmente meno orientato all’utente e più a “fregare” il motore di ricerca.

Quei (bei?) tempi sono andati. Oggi mi ripeto ogni giorno questo motto, ed agisco di conseguenza: “Ricorda che i bot non hanno la carta di credito“.