OK, ho mollato. Tutti vogliono sapere il motivo e rispondere a tutti individualmente non è possibile, ecco perché ho scritto questo post. Puoi leggerlo solo in parte (il punto cruciale è nel terzo paragrafo) o leggerlo tutto. Ma prima un avvertimento: non è un post drammatico, non si sparla di nessun ex-collega e non c’è nulla in più di quello che puoi trovare sulla stampa in questi giorni circa gli atteggiamenti di Google nei confronti della privacy degli utenti e degli sviluppatori software. Questo è semplicemente un racconto personale. Lasciare Google non è stata una decisione facile. Durante il tempo mi ero appassionato all’azienda. Ho partecipato a 4 Google Developer Day, 2 Google Test Automation Conference e collaborato parecchio al blog. Chi selezionava il personale mi ha spesso chiesto di contribuire alla scelta di candidati di altro profilo. Nessuno ha mai dovuto chiedermi di promuovere Google e nessuno è stato più sorpreso di me quando non l’ho più fatto. Infatti, i miei ultimi 3 mesi in Google sono stati un vortice di disperazione, tentando invano di far riemergere la mia passione. In Google ho trovato una azienda tecnologica che dava modo ai suoi dipendenti di innovare. In Google ho lasciato una azienda pubblicitaria, focalizzata solo su quello. Tecnicamente suppongo che Google sia sempre stata una azienda basata sulla pubblicità, ma per la maggior parte degli ultimi 3 anni non me ne sono accorto. Google era una azienda pubblicitaria nella misura in cui un ottimo show televisivo è una azienda pubblicitaria: produrre ottimi contenuti attrae gli inserzionisti. Sotto la gestione di Eric Schmidt, gli annunci pubblicitari erano sempre sullo sfondo. Google era una fabbrica di innovazione, che permetteva ai dipendenti di sviluppare la loro vocazione imprenditoriale tramite vari premi e bonus, lasciando loro il 20% del tempo libero. La raccolta pubblicitaria ha permesso di pagare chi pensava, innovava e creava. Cose come App Engine, Google Labs e altri servizi open source. Il fatto che tutto questo sia stato pagato da una macchina pubblicitaria che produceva enormi quantità di soldi, non era percepito dalla maggior parte di noi. Forse lo sapevano gli ingegneri che lavoravano sui prodotti pubblicitari, ma la maggioranza era convinta che Google fosse in primo luogo una azienda tecnologica, che assume persone “smart” e che pone una grande scommessa sulla loro capacità di innovare. Da Google sono venuti prodotti strategicamente importanti, come Gmail e Chrome, risultato dello spirito imprenditoriale presente ai più bassi livelli dell’azienda. Naturalmente lo spirito innovativo crea dei problemi, e Google ne ha avuti alcuni. Ma è sempre ripartita in fretta dai suoi fallimenti, imparando da questi. In un tale contesto non devi essere parte del giro giusto di qualche dirigente per avere successo. Non devi avere la fortuna di atterrare su un progetto fantastico per fare carriera. Chiunque abbia buone idee e competenze può riuscirci. Ho avuto un sacco di opportunità per lasciare Google, ma mi era difficile immaginare un posto migliore dove lavorare. Ma questo era il prima, ora parliamo dell’oggi. C’è un punto dove la macchina innovativa di Google ha iniziato a vacillare, un punto che a Google importa parecchio: quello della competizione con Facebook. I primi tentativi hanno prodotto una coppia di “antisocial”, ovvero Wave e Buzz. Orkut non ha mai preso piede fuori dal Brasile. Come la proverbiale lepre che ha troppa fiducia di sé al punto di schiacciare un pisolino, Google si è svegliata dal suo “social dream” accorgendosi che il suo dominio negli annunci pubblicitari iniziava ad essere minacciato. Google espone ancora più banner a più persone rispetto a quanto fa Facebook, ma Facebook conosce molte più cose su quelle persone. Gli inserzionisti e gli editori hanno a cuore questo tipo di informazioni personali, al punto che sono disposti a mettere il marchio di Facebook prima del loro: www.facebook.com/nike … è normale che una azienda con la potenza e l’influenza di Nike metta il proprio nome dopo quello di Facebook? Nessuna azienda lo ha mai fatto per Google, e Google se l’è presa sul personale. Larry Page in persona ha preso in mano le redini della questione. La parola “social” è divenuta un mandato aziendale, col nome di Google+. Un nome inquietante che evoca la sensazione che il solo Google non è più sufficiente. La ricerca deve essere social. Android deve essere social. YouTube, una volta gioiosamente indipendente, deve essere… beh, ci siamo capiti. Ancor peggio è che l’innovazione deve essere social. Le idee che non mettono Google+ al centro dell’universo sono considerate distrazioni. Improvvisamente, la cosa del 20% è risultata sciocca. Google Labs è stato chiuso. Le spese relative a App Engine sono cresciute. Le API che sono rimaste free per anni sono state deprecate o passate a pagamento. I discorsi sul “vecchio Google” e i suoi deboli tentativi di competere con Facebook sono stati accantonati a favore del “nuovo Google” che promette di avere “più legno anche se in poche frecce”. I giorni in cui il vecchio Google assumeva persone “smart” consentendo loro di inventare il futuro, erano passati. Il nuovo Google sapeva fuori da ogni dubbio come doveva essere il futuro. Ai dipendenti che avevano frainteso è stato spiegato come stanno le cose. Ufficialmente, Google ha dichiarato che “la condivisione si è rotta sul web” e nulla a parte la forza collettiva delle nostre menti attorno a Google+ può risolvere il problema. Bisogna ammirare una società disposta a sacrificare le vacche sacre e riunire i propri talenti per fronteggiare qualcosa che minaccia il suo business. Se la visione di Google fosse stata giusta, molti di noi avrebbero voluto far parte del risultato. Io ci avrei scommesso. Ho lavorato in Google+ come direttore del reparto sviluppo, rilasciando un sacco di codice. Ma il mondo non è mai cambiato, il modo di condividere non è mai cambiato. E’ discutibile se abbiamo contribuito a migliorare Facebook, ma tutto quello che potevo mostrare erano solo punteggi di review più elevati. Come abbiamo scoperto, la condivisione non si era rotta. La condivisione funzionava bene, e Google non ne faceva parte. La gente stava condividendo tutto intorno a noi, e sembrava molto felice. Un utente in fuga da Facebook non si è mai materializzato. Non sono nemmeno riuscito a obbligare mia figlia adolescente ad aprire Google+ per 2 volte: “non è un social”, mi ha detto dopo che le ho dato un accesso demo, “i social sono le persone e le persone sono su Facebook”. Google è stato il ragazzo ricco che, dopo aver scoperto di non essere invitato alla festa, ha organizzato una festa tutta sua per rappresaglia. Il fatto è che poi nessuno si è presentato alla festa di Google. Google+ e io, sono semplicemente 2 cose che non stanno bene insieme. La verità è che io non sono tagliato per la pubblicità. Non clicco sui banner. Quando Gmail mostra un annuncio pubblicitario basato sulle cose che scrivo nella mia email, mi sento a disagio. Non voglio che i risultati delle mie ricerche contengano cose che ho fatto su Google+ (o su Facebook e Twitter). Quando cerco “London pub walks” voglio di più che un risultato sponsorizzato che mi suggerisce “Buy a London pub walk at Wal-Mart”. Il vecchio Google ha fatto una fortuna sugli annunci pubblicitari, perché aveva buoni contenuti. Era come la TV: fai il miglior show possibile, e ottieni gli annunci pubblicitari più remunerativi. Il nuovo Google, invece, sembra concentrato solo sulla pubblicità. Forse Google ha ragione. Forse il futuro consiste nell’imparare più cose possibili circa la vita privata delle persone. Forse Google è un giudice migliore di quando chiamavo mia madre e mia moglie per decidere se comprare qualcosa da Nordstrom. Forse se mi propongono un annuncio pubblicitario di un avvocato divorzista, solo perché sto scrivendo una email su mio figlio 14enne che ha appena litigato con la sua ragazza, dovrei accettare il consiglio e separarmi da mia moglie. O forse avrei dovuto aver capito tutte queste cose da solo. Il vecchio Google era un ottimo posto dove lavorare. Ma il nuovo? Liberamente tradotto da Why I left Google, di James Whittaker.