Parto con un titolo volutamente provocatorio e cerco di esporre anch’io il mio punto di vista dopo il triduo di post di Massarotto (1 – 2 – 3) sul “fenomeno” dei nativi digitali, che ha fatto tanto discutere negli ultimi giorni. Innanzitutto è bene chiarire che NON sono un digital native, semplicemente perché ho visto la luce nel 1968 🙂 . Il primo home computer l’ho avuto nel 1982, la prima connessione ad Internet nel 1994. Potrei quindi definirmi un early adopter, uno che ha sempre subito il fascino delle nuove tecnologie e che – limiti economici permettendo – ha sempre cercato di “adottarle” prima di altri, molto prima che ci arrivasse “la massa”. Intendo dire questo: se oggi un pc/notebook/netbook lo hanno davvero tutti, negli anni ’80 in pochi facevano la fila per un C64 o uno Spectrum. Se oggi Internet è un media diffuso e assorbito a tutti i livelli, nel 1995 ci credevano in 4 gatti. E io ero fra quelli. Giro pagina, poi alla fine unisco tutto e capirai il senso. 2 mesi fa vado al Working Capital di Milano, evento itinerante che punta a finanziare startup di giovani talentuosi. Peccato che alcuni elevator pitch si rivelino una mezza tragedia, con i poveri nativi finiti “impallinati” dal finanziatore di turno. Finanziatore che però insiste (giustamente) a scommettere sugli under 25, e quando pesca dal mazzo tale Andrea Lo Pumo lo manda a studiare a Cambridge e lo sbatte in copertina su Wired – Wired convinta che “per un nativo che cade c’è un mondo che cresce”. Assolutamente vero, ma nel fantastico progetto di Lo Pumo io non ci vedo nulla di economicamente sostenibile. Come si possa conciliare Netsukuku – “nato per costruire una rete distribuita, anonima e anarchica, non necessariamente separata da Internet, senza il supporto di alcun server, ISP e di alcuna autorità centrale” – con Telecom Italia (e le varie telecom sparse nel mondo) e/o con i vari governi (occidentali e non), vorrei tanto che qualcuno me lo spiegasse. Andiamo avanti. Leggo che fra pochi anni non avrò più alcuna opportunità nel mondo lavorativo: chi perde il lavoro dopo i 45, è morto. Posso immaginare che le scuse siano sempre le stesse: costi troppo, pretendi troppo, non sei elastico. Il passato di una persona non conta nulla, una esperienza ventennale in un settore ipertecnologico e competitivo non ha alcun valore. Conta solo la data di nascita. Conclusione Il mondo del lavoro ha sempre scommesso sui giovani, principalmente per 2 motivi: • costano meno • è possibile spremerli di più Sul fatto che i ventenni siano invece più brillanti e illuminati dei 30-40enni, permettetemi di esprimere un bel po’ di riserve: avranno forse più entusiamo, si approcceranno ad un progetto con meno preconcetti, ma spesso hanno enormi lacune. Non hanno una memoria storica (che anche in un mondo giovane come quello di Internet ha il suo bel peso), non hanno fatto esperienze significative (e come potrebbero, vista l’età?), non hanno quello che in una parola sola viene chiamato know-how. Poi capita che setacciando qualche milione di giovani esca fuori il Google, lo Yahoo!, il Facebook o il Twitter, ci mancherebbe. Ma intanto escono da un tessuto socio-scolastico-imprenditoriale che NON è quello italiano: al nostrano Working Capital non ho visto idee disruptive, ma solo proposte atte a cavalcare l’onda dei social, del mobile, della geolocalizzazione. Sul web italiano vedo girare solo dei gran cloni di cose già viste / già sentite. E scommetto che se qualcuno, nel Bel Paese, tirasse fuori la genialata, non verrebbe né capito, né finanziato. E gli over 30? ne conosco parecchi che hanno idee, know-how e vari business plan nel cassetto. Ma purtroppo non hanno il tempo per lavorarci, impegnati come sono a sbarcare il lunario, facendo i salti mortali fra bollette, rate, mutuo, famiglia e orari di lavoro inumani. E forse non hanno nemmeno qualcuno disposto ad ascoltarli.