marketing

È un dato di fatto, chi si occupa di Marketing preferisce esprimersi ricorrendo ad un impiego di termini anglofoni ad infinitum. Un esercizio fine a se stesso, effettuato ad uso e consumo di altri professionisti del marketing e non dell’imprenditore che, molte più volte di quanto si creda, quei termini proprio non li comprende. Eppure è lui che deve acquistare la consulenza di Marketing!

Sia chiaro, vi sono casi in cui il termine (o la locuzione) in inglese deve per forza di cose essere utilizzato perché intraducibile. Ma in tutti gli altri, invece, ritengo possa essere agevolmente sostituito da un corrispettivo italiano molto più efficiente.

Insomma, io credo che, sic et simpliciter, in sede di trattativa commerciale, l’uso dell’italiano aiuti a vendersi meglio.

Cercherò di spiegare il perché nei prossimi paragrafi attingendo, come è ovvio che sia, da quelle che sono le mie esperienze personali.

Ho effettuato oltre un centinaio di visite commerciali presso aziende del Triveneto, in alcuni casi a titolo personale, in altri accompagnando, con il ruolo di consulente esterno, altri professionisti di aziende che vendono servizi di marketing. In altre occasioni, invece, mi sono seduto “dall’altra parte del tavolo” supportando le stesse aziende che quei servizi devono acquistare.

Ebbene tutte le volte in cui vengono pronunciati (da me o altri, non è importante) termini quali funnel, conversion rate, brand awareness, lead generation, ecc., provo la forte sensazione che il potenziale cliente, l’imprenditore, comprenda solo in parte o, più spesso, non comprenda affatto cosa si voglia intendere.

Me ne accorgo dal suo sguardo che si fa sempre più confuso, vacuo, smarrito.

E quando questo accade – e succede molto spesso, ve lo assicuro – si possono ottenere due distinte reazioni:

  1. Il potenziale cliente chiede giustamente spiegazioni. E questo mette in difficoltà il professionista, perché interrompe il flusso della narrazione che con cura aveva preparato la notte prima. La mente deve essere ricalibrata per dare risposta alla richiesta di chiarimento. A volte il processo ha esito positivo. La spiegazione soddisfa l’interlocutore e si riparte. Ma ecco che, immancabilmente, “salta fuori” un altro termine sconosciuto all’imprenditore e, di nuovo, si rende necessaria un’altra spiegazione. E così si procede stancamente sino alla conclusione della presentazione che, per forza di cose, non può essere risultata convincente.
    In altre occasioni, invece, la spiegazione data dal professionista è confusa, poco accurata e strutturata. Questo perché, molto spesso non è applicabile il catoniano rem tene verba sequentur, l’esperto di Marketing infatti non si è mai posto il problema di tradurre in italiano quelle espressioni. Le ha assorbite così come le ha lette e studiate e, in pochi secondi, magari sotto stress, non è in grado di improvvisare ed effettuare una corretta mediazione linguistica. E così il potenziale cliente si innervosisce, ma il suo tempo è prezioso, perciò, malvolentieri, accetta di proseguire pur non avendo compreso nulla o quasi.
  2. Il potenziale cliente si ricompone, nasconde l’espressione di disgusto, cela la dissonanza percepita, annuisce, ma, per non fare la figura dell’ignorante o per superbia, non pretende dei chiarimenti. Il flusso del discorso continua, vengono sfoggiati decine di altri termini a lui incomprensibili e si arriva alla conclusione di un colloquio vuoto, privo di utilità, perché, anche in questo caso, l’imprenditore ha compreso solo una parte marginale di quello che gli si sta proponendo. E cosa succederà poi? Che rinuncerà a capire e di fatto rifiuterà l’offerta di consulenza o, più spesso, che farà ricorso alla prima persona di fiducia al fine farsi spiegare quanto gli è stato detto. Quella persona potrebbe essere un suo dipendente, un amico, un parente (pure il famigerato cugino). Quella persona non è detto sia competente in materia, anzi, nove volte su dieci non lo è. In molti casi potrebbe consigliarlo male o impropriamente. E così, spesso, si rischia di perdere un potenziale cliente per l’intervento di un terzo interlocutore occulto che nemmeno sarà citato quando verrà comunicato che non si intende accettare l’offerta. Del resto quando mai un imprenditore affermerà a cuor leggero che si è affidato ad un’altra persona per prendere una decisione?

Insomma, in entrambi i casi citati, si corre il forte rischio di mandare a monte la trattativa a causa dell’uso ostentato di termini tecnici in lingua inglese utilizzati al solo scopo di ottenere un moto di ammirazione da parte del’uditore che, di fatto, provocano esattamente l’effetto opposto. Del resto “in vestimentis non est sapientia mentis”…

Cta Digital Marketing

A questo punto si potrebbe obiettare che il Triveneto è particolare costituito com’è da migliaia di piccole e piccolissime aziende condotte secondo logiche paternalistiche, laddove il titolare di impresa, il “paron”, fa e decide tutto. C’è poca struttura, insomma, spesso non esistono reparti di marketing e comunicazione, che quei termini dovrebbero pur conoscere.

Ho però lavorato anche con aziende più grandi, pure dislocate in altre zone di Italia e ho notato che anche in questi frangenti l’uso eccessivo di terminologia anglofona può essere deleterio.

Per quella che è la mia esperienza l’azienda strutturata porta molte più persone a discutere di una proposta commerciale, tra queste il responsabile marketing che quei termini conosce e tutta una serie di altre professionalità di cui non si può dire altrettanto. In genere proprio tra queste figure vi è il decisore finale, il Deus ex machina, colui cioè che può accettare o meno la proposta.

Che succede se non si utilizza un linguaggio comprensibile a tutti? Semplice, si instaurerà una comunicazione uno ad uno con il solo responsabile marketing che, di fatto, diventerà, nostro malgrado, portavoce della nostra proposta e, quindi, sarà lui a determinare le sorti della trattativa.

A me, in tutta sincerità, questo non sta bene, voglio essere homo faber ipsius fortunae, voglio poter discutere direttamente con chi ha in mano la mia sorte, “assegnando” al responsabile marketing, come è giusto che sia, la sola funzione di consigliere e non di decisore finale.

E così, nel mio piccolo, presso il potenziale cliente, cerco di utilizzare, apertis verbis, solo corrispondenze italiane di quei termini di marketing che nascono in inglese. E quando questo, per qualsiasi motivo, non possa avvenire, anche a costo di prolungare di molto la trattativa, cerco di spiegare nella maniera più semplice possibile il significato di ogni termine di marketing utilizzato.

Del resto cosa fa il Marketing? Trasforma il prodotto, lo rende più aderente ad una intima, interiore, specifica esigenza avvertita dall’individuo o addirittura latente. Lo incensa, “lima” le sue imperfezioni, elimina – almeno sulla carta – i suoi difetti ed esalta i suoi pregi. Lo scompone in funzione dei benefici che può generare e dei bisogni che può soddisfare, in pratica rende il prodotto più “comprensibile”, più “a misura d’uomo”.

Ebbene perché non applicare gli stessi principi anche quando il prodotto in vendita è il marketing stesso?

Concludo citando il caso emblematico della locuzione “buyer persona” usata nel marketing per identificare e comprendere il cliente tipo nelle sue caratteristiche personali, oltre che socio-demografiche (fonte Wikipedia).

In questo contesto, insomma, il termine “persona” viene utilizzato con un significato più ampio di quello normalmente attribuito dal linguaggio comune e cioè quello di “individuo inteso in senso estensivo, dotato di un carattere, di una natura che presenta agli altri”.

Un termine, presente nel Dizionario Collins, di assoluta derivazione latina (utilizzato peraltro molto nella psicologia analitica Junghiana) tanto è vero che tra i plurali si annovera, oltre che “personas”, anche “personae”.

Ebbene Alan Cooper, colui che ha coniato l’espressione “buyer persona”, non trovando un termine anglofono adeguato dovette comporre la locuzione con uno di un’altra lingua: la nostra! Perché il latino, checché ne dicano quelli che non vogliono che si studi più a scuola, ci appartiene!

E noi che facciamo, ci ostiniamo ad utilizzare questo nostro termine in una espressione in inglese?

Autore: Enrico Ladogana, per Max Valle