Esempio di micropagamento via web :-)

La tesi che da qualche tempo sta portando avanti Rupert Murdoch è molto semplice: i banner non rendono più, quindi bisogna trovare il sistema di monetizzare in altro modo i contenuti pubblicati sul web… magari facendoseli semplicemente pagare dai lettori. Passano alcune settimane, e pure diversi noti editori italiani si sono trovati d’accordo (guardacaso 🙂 ) col magnate australiano. Ma ora ti spiego perchè il sistema pensato da Murdoch non può funzionare. 1. La forma di pagamento Sul web si paga con la carta di credito, o con PayPal. O almeno si dovrebbe, perchè poi (speciamente in Italia) c’è chi non si fida, o chi vuole pagare in altre forme (ad esempio, bonifico bancario). Quanti utenti sarebbero disposti ad estrarre la VISA/Mastercard per acquistare online qualcosa che non si può toccare (come i contenuti pubblicati su un sito web)? Probabilmente pochi, troppo pochi. 2. La qualità Sarei ben disposto ad acquistare contenuti unici, esclusivi, originali. Il problema è che devono esserlo sul serio. E invece assistiamo al copia e incolla sistematico, anche su noti quotidiani e illustri portali, senza alcun controllo delle fonti. In altre parole, non si possono vendere contenuti reperibili gratuitamente da altre parti: chi vuole farlo, sarà obbligato a produrre qualcosa di introvabile, e di estrema qualità. 3. La tipologia dei siti Questo modello di business sarà applicabile a tutti i siti, indistintamente? non credo proprio. Potranno probabilmente provarci i siti più verticali, con utenza estremamente fidelizzata. Non sicuramente i generalisti, o quelli che vivono solo di traffico proveniente dai motori di ricerca. 4. Il “pattern” del traffico Se parliamo di contenuti a pagamento, questi non dovranno essere (ovviamente) accessibili ai motori di ricerca, nè potranno essere raggiunti tramite link esterni. Ne consegue che il sito dovrà acquisire una fortissima popolarità e una larghissima base di utenti molto PRIMA del passaggio da free a fee. 5. Doppia tipologia di contenuti Ma chiudere completamente tutti i contenuti all’interno di un muro invalicabile può non essere una scelta intelligente. Chi è disposto ad acquistare qualcosa a scatola chiusa? ecco dunque l’emergere di una strategia a 2 facce: da un lato, la maggior parte dei contenuti chiusi sotto chiave; dall’altro, qualche “assaggio” gratuito di alta qualità, o l’accesso limitato per poche ore/giorni ad alcune aree del sito in questione. 6. Le “aree riservate” Usciamo un pochino (ma neanche poi tanto) dal seminato per parlare di un modello che sta andando molto di moda all’estero: quello delle cosiddette “aree premium”, all’interno delle quali sono ospitati i contenuti a pagamento. A parte le aree dei (pochissimi) quotidiani “verticali” (una su tutte quella del Wall Street Journal, che propone l’edizione web del giornale a $1,99 a settimana) mi piace notare l’esplosione delle coaching area attivate dai vari guru di settore (solitamente super-esperti di web marketing e del fare soldi online). Giusto per fare qualche nome: OnlineProfits.com (di Daniel Scocco), SEO Training Course (di Aaron Wall) e la recentissima ShoeMoney Xtreme (di Jeremy Schoemaker). La logica che le accomuna è molto semplice: nel tempo il guru raccoglie un gran numero di adepti, che si cibano quotidianamente dei contenuti che pubblica sul suo sito. Quando raggiunge un grandissimo numero di utenti che lo seguirebbero pure in capo al mondo, il santone lancia in pompa magna il suo Training Program, spesso aiutato nell’opera da una fitta rete di blogger suoi simili. I conti son presto fatti: l’accesso a queste aree ha un costo di diverse decine di dollari/mese, e con uno “zoccolo duro” di una buona manciata di “discepoli” si possono iniziare a guadagnare cifre piuttosto interessanti. 7. Il prezzo Chiudiamo con il punto cruciale. Qual’è il prezzo giusto per un servizio del genere? Ricordo l’iniziativa PI NoADV di qualche anno fa, quando Punto Informatico provò ad istituire un canone di 3 euro al mese (o 30 euro all’anno) per accedere alla “versione senza banner” del sito. Reputai il prezzo assolutamente (forse anche troppo) “equo e solidale”, ma il servizio non vide praticamente la luce (e penso che nessuno dei miei lettori ne ricordi l’esistenza…). Fra i casi di successo (più unici che rari) abbiamo l’illustre esempio del WSJ, dove l’importo del canone annuo richiesto al lettore è di circa 100 dollari: pare che la versione online del quotidiano abbia raggiunto l’incredibile cifra di 980.000 paid subscriber, numeri che non credo siano in alcun modo replicabili, in nessun settore e nessuna lingua. Per i piccolissimi editori esiste infine Kindle publising for blog, sistema ideato da Amazon per portare i contenuti dei blog all’interno del popolare ebook reader, rigirando una modesta quota al blogger: il TagliaBlog è (ovviamente) presente, ma non credo ci sia al mondo qualche pazzo che voglia leggermi sul Kindle per 0,99 dollari al mese… 😀 Conclusione Tornando in topic, penso che i tempi non siano ancora maturi per il “grande salto”. Il modello pubblicitario basato sui banner non è ancora completamente morto: si sta evolvendo, probabilmente diventerà sempre più “televisivo” (e invasivo), ma qualche anno ancora di vita glielo voglio concedere. Semmai rifletterei sul fatto che il sistema non è ancora sostituibile, in modo semplice e indolore, con qualcosa in grado di far guadagnare da subito cifre interessanti agli editori. Fra il “tolgo tutti i banner” e il “metto tutto a pagamento” ci deve essere una fase transitoria, probabilmente lunga e irta di ostacoli, e sicuramente non alla portata di tutti: – Da un lato, il grosso editore non può permettersi di fare il pioniere, di fare un salto senza rete dal quale rischia di non poter tornare indietro: il rischio di perdere soldi e quote di mercato, soprattutto in questo periodo, non può essere vista come una scelta intelligente e lungimirante. – Dall’altro, il piccolo editore non ha né i mezzi né la forza per passare da free a fee: rimarrà ancorato ai banner finché questi esisteranno, e semmai inizierà a scrivere pubbliredazionali o a riempire gli articoli di link affiliati. Ti lascio con un enorme quesito finale: se il modello di business dei banner è destinato a tramontare, cosa si inventerà Google, che basa la quasi totalità del suo fatturato su AdWords/AdSense? acquisterà forse qualche importante giornale e si metterà a venderne i contenuti? 🙂