Ossia, chiamare all’azione (i visitatori) usando la scrittura persuasiva: una volta che l’utente è giunto nel nostro sito, non dobbiamo permettergli di andar via a mani vuote. Credo di non essere l’unico a pensare che 10.000 accessi giornalieri con una frequenza di rimbalzo del 99% siano, nella maggior parte dei casi, meno utili di 500 accessi con un bounce rate del 10% o con un tasso di conversione del 5%. Il rendimento delle visite è certamente legato al tipo di sito, ma in linea di massima un sito sviluppato per fare business (sia online che offline) necessita che il visitatore rimanga nella pagina per almeno 30 secondi, compiendo magari qualche azione. Ad esempio nel caso di siti aziendali è importantissimo stabilire un contatto con il visitatore, nel caso di siti di eCommerce bisogna vendere prodotti, nel caso di siti di informazione è necessario catalizzare l’attenzione richiedendo eventualmente un commento finale; c’è anche l’eventualità di voler unicamente fare brand, e la cosa può richiedere molto meno tempo, ma questo è un altro discorso. La call to action è parte integrante del persuasive copywriting: bisogna spazzar via tutti i dubbi del potenziale cliente per spingerlo all’azione. Non sto dicendo di ingannarlo, sia chiaro, ma di riuscire a fagli comprendere il vero valore del prodotto (o del servizio) che si sta vendendo e soprattutto l’effettiva necessità, a volte inespressa. Si potrebbe parlare e scrivere per ore a proposito delle tecniche di persuasive copywriting capaci di spronare l’utente all’azione; purtroppo, tali tecniche cambiano con il tempo, si evolvono e variano da situazione a situazione. Per un lungo periodo è stata di moda la call to action in cambio di qualcosa: eBook, gadget, software regalati a fronte dell’iscrizione al sito, alla newsletter, al feed RSS etc. Un’altra tecnica, secondo me un po’ meno etica, consisteva (e lo fa tutt’ora) nel far credere all’utente di trovarsi di fronte ad un’offerta in scadenza (minuti-ore-giorni) oppure di trovarsi di fronte ad un prodotto venduto ad un quarto del valore reale. Forse queste tecniche non sono male, ma le trovo troppo yankee, troppo americane. Purtroppo (o per fortuna) il marketing americano è molto diverso dal nostro. Un italiano tende a considerare pacchiano un venditore che utilizzi modi e terminologie made in U.S.A.; questo non esclude che tale venditore si riveli fin troppo persuasivo… Io credo che il persuasive copywriting con relativa call to action si debba basare sulla qualità del prodotto e sulla corretta esposizione dello stesso. Mentre ero intento a scrivere questo post, cercando maggiori informazioni a proposito di C.T.A. e P.C., mi è capitato sotto gli occhi un interessante articolo a tema di Nathan Stewart. Nonostante sia americano, propone un modello che definirei marketing stile latino (o forse europeo). Alla Call to Action, aggiunge i Points of Resolution e le Resolving Doors. Per chi volesse leggere l’articolo (in inglese): Calls To Action, Points of Resolution and Resolving Doors. Autore: Francesco “DAG” D’Aguanno (per TagliaBlog).